COME I SOLDATI ITALIANI FUCILAVANO
GLI SCAMPATI AL SISMA DI MESSINA, 1908
Da “Giù al Sud” – di Pino Aprile
«Voi non potete giudicare. Voi non avete visto»
(dalle corrispondenze di Claudio Treves, per «Il Tempo»,
sul terremoto del 1908)
… Si parla di Messina, la loro città rasa al suolo, nel 1908, da un terremoto (così violento che i sismografi finirono fuori scala e non riuscirono a segnarne l’ampiezza) e un maremoto (le onde anomale furono tre, in successione, spazzarono le rive calabre e sicule; la più alta era un mostro di 13 metri). Le vittime furono almeno 80.000 su 140.000 abitanti a Messina; 15.000 su 45.000 a Reggio, forse 40.000 in tutta la provincia. «Attendete, prima di dare la notizia», disse, prudente o seccato, ai giornalisti, il capo del governo, Giovanni Giolitti, che non voleva prenderla sul serio, «qualcuno ha confuso la distruzione di qualche casa, con la fine del mondo.»…
Un duplice flagello, scritto da uno scampato al disastro, Giacomo Longo…
Si narra come l’Italia soccorse la città: «dallo stato d’assedio proclamato dal generale Mazza, forte di “diecimila fucili e cento cannoni”, all’imboscamento delle trentamila tende e trentamila coperte destinate ai superstiti dalla Francia e dall’Inghilterra; dalle ruberie di denaro e preziosi che i soldati al comando del generale Mazza spedivano ai parenti (i loro parenti, non quelli delle vittime), al mancato soccorso delle centinaia di feriti lasciati a morire; dall’immensa quantità di generi alimentari chiusi nei magazzini della Cittadella, alla distribuzione, ai superstiti di “pane nero e pasta ammuffita”; dalla negazione perfino di un sorso d’acqua agli scampati, all’assassinio del figlio del professor Melle, sorpreso dai soldati mentre scavava con le mani in via Cardines alla ricerca della famiglia».
E che diamine: i soccorritori derubano i terremotati e sparano ai superstiti! Sapevo, ma l’avevo presa come una sorta di macabra battuta, che qualcuno, in Parlamento, propose di bombardare le rovine della città (fa niente se sotto c’erano migliaia di sepolti vivi) e cancellarla dalla storia e dalla geografia, spartendone la provincia fra quelle di Catania e Palermo. Sarebbe bastato cannoneggiarla una mezza giornata dal mare. Dicevano sul serio (ancora venti giorni dopo, dalle macerie sarebbero stati estratti vivi dei superstiti)…
I soldati vennero, scavarono fra le macerie, con quel che avevano, con le mani e con le unghie, ma per recuperare la cassaforte della Banca d’Italia, annunciandone trionfalmente il ritrovamento al capo del governo, Giolitti: «per essi le vittime erano rappresentate dalle casse forti e dai gioielli» scrive Longo. E capitava che si lasciassero morire i sepolti vivi. Un vecchio si avvicina piangendo a un gruppo di soldati «richiede d’aiuto, perché la sua figliola gemeva viva ancora sotto le macerie. Non possiamo – gli risposero: Aspettiamo il nostro capitano», riferisce Longo. E poi: «Gemeva la famiglia Borzì, sotto le macerie […] i genitori e altri figli erano ancora in condizioni tali da poter essere salvati […]. Un ufficiale di fanteria li sentì – li vide ed ebbe l’empio coraggio di andare oltre, mormorando: Ho da fare».
I familiari che tentavano di intervenire personalmente erano arrestati o fucilati come “sciacalli”, perché la prima decisione che si prese fu di decretare la pena di morte per i ladri e i saccheggiatori. Rocco Arena e sua moglie Domenica Scarfì, sorpresi a rovistare fra i resti della casa di una loro parente, finirono in prigione per cinque mesi, e i loro tre bimbi rimasero randagi. «Sparate su quelle belve» esortava il socialista Bissolati, sull’«Avanti!». Reazionari o socialisti (fu uno dei fondatori del partito, Camillo Prampolini, bolognese, a distinguere gli italiani fra “nordici e sudici”), non importa quale sia il problema dei meridionali, rivolta contro un’invasione “fraterna” o sopravvivenza a un terremoto, la soluzione sembra essere sempre la stessa: fucilateli!
… E non pare che i soccorritori avessero bisogno di farselo ricordare: «Un giovinetto sui quindici anni, bello, biondo, ricciuto, dalle fattezze delicate e che a tutt’i segni pareva
di gentile lignaggio […] s’era salvato per un prodigio e, avendo trovato una camicia e un paio di pantaloni fra le macerie, li aveva raccattati per vestirsi. Arrestato (per sciacallaggio; N.d.A.)… andava chiamando invano “mamma! mamma!”. Il buon maggiore guardò la creatura supplichevole, guardò i carabinieri accigliati […]. Si voltò dall’altra parte e ordinò: “Fate il vostro dovere!”», riferisce un cronista e testimone, Giovanni Alfredo Cesareo. Fucilato!
«Si spara sui cani, sui gatti, sui ladri» spiega un militare a un altro giornalista, Oddino Morgari, il quale obietta che molti «frugano tra le rovine delle altrui case per procacciarsi quei viveri e quegl’indumenti che il governo non dà. In secondo luogo osservo che se non si fucila il ladro che ruba ai vivi non vi è ragione di fucilare quello che ruba ai morti». Evidentemente, il valore della vita dei meridionali non raggiungeva, nella stima dei soccorritori, il livello di tale logica.
Nelle corrispondenze di alcuni inviati a Messina e Reggio Calabria si legge, anche con coloriture razziste, dell’apatia dei sopravvissuti, in attesa di tutto, seduti magari sulle rovine delle loro case. Ma chi si dava da fare rischiava l’esecuzione sul posto (al “giovanetto Raboni”, che scavava per recuperare il cadavere del padre, «venne imposto di desistere – gli s’intimò l’arresto e lo si minacciò di fucilazione»).
…Goffredo Bellonci, del «Giornale d’Italia», racconta di «un vecchio bianco, curvo, con gli occhi aridi e un tight frusto» che «domanda ad ogni minuto», all’onorevole Micheli (uno dei veri eroi civili, in quel disastro, per quanto bene fece, al fine di risollevare le condizioni e il morale dei sopravvissuti): «Mi dà il permesso di prendere mio figlio?». Il corpo del ragazzo è sotto le macerie e il padre non vuole che imputridisca sotto la pioggia, vorrebbe almeno rispettarne i resti. Ma nemmeno l’onorevole può contraddire l’ordine del generale Mazza, il vecchio rischierebbe d’essere giustiziato sul posto. Nel muto imbarazzo dell’interpellato, l’uomo continua la sua cantilena: «Mi dà il permesso, onorevole?». Il giornalista si allontana sconvolto.
A leggere quelle cronache, ti dici che la sciagura non fu il terremoto, ma l’arrivo dei soccorsi.
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