DALL’EREMO DI SARRIZZO A DON MINICO
STORIA DEI COLLI PELORITANI
San Rizzo, o Sarrizzo, è questo il problema.
E’ Sarrizzo, perché un santo di nome Rizzo non è mai esistito.
Risalendo la strada statale che porta ai Colli, subito dopo la “Casa di Riposo delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Don Bosco” in località Piano Rama, esiste la grotta-eremo che, secondo la tradizione, ospitò l’eremita Sarrizzo. Il piccolo ambiente è a pianta rettangolare, coperto da una volta a botte con struttura muraria in mattoni. Sulla parete di fondo, al centro, campeggia una croce greca scavata sulla pietra ed altre due più piccole sono incise, in basso. Interessante la presenza di alcune iscrizioni in greco di difficile lettura. Presumibilmente di epoca bizantina o normanna, sulle pareti laterali interne sono graffiti l’anno 1766, il nome Gius. Midili e l’anno 1660, a testimonianza che il sito era intensamente frequentato in passato.
Dal valico dei Colli Sarrizzo è passata la Storia, la grande Storia. Ci passò Re Pietro III d’Aragona (1239-1285) il 2 ottobre 1282 quando entrò a Messina che gli riservò sontuosi festeggiamenti e prese alloggio nel “Castello a Mare” (che sorgeva accanto alla chiesa dei Catalani). Re Pietro era alle calcagna degli angioini che attraverso i Colli Sarrizzo fuggivano inseguiti in direzione di Messina dopo la rivolta dei Vespri Siciliani del 30 marzo 1282. L’episodio è così narrato da Tito Alleva nella sua “Guida Generale della Provincia di Messina” del 1898: “In questo sublime cimento, Messina credeva di potersene rimanere inattiva, per le speciali deferenze usatele dallo Angiò, ma il precipitare degli eventi, indusse il popolo, nel successivo Aprile dello stesso anno, a continuare il Vespro, sino al completo esterminio delle galliche soldatesche […] Dalla ostinata e valorosa resistenza, l’Angiò ritenne pericoloso lo insistervi, in specie quando Pietro d’Aragona, col suo giovane esercito, corse in aiuto dell’afflitta città”.
L’esercito angioino, inseguito dal sovrano aragonese, dal valico dei Colli Sarrizzo (oggi le “Quattro Strade”) scese per un sentiero verso la vallata del torrente dove sorgeva e sorge ancora oggi la chiesa normanno-sveva di Santa Maria della Valle detta la “Badiazza” che venne depredata e incendiata. Il coevo storiografo Bartolomeo Da Neocastro, nella sua “Historia Sicula” (AA. 1250-1293), così scrive: “E così re Carlo, durante la ritirata, rilascia i suoi all’ira con l’incarico di predare e distruggere le chiese. Sono devastate le travi e le colonne di marmo del luogo sacro, e la venerata casa Santa della Madre di Dio della Scala messinese, alla quale tutto quanto l’altro popolo cristiano accorre con rispetto, saccheggiano, spogliano gli altari, e se qualcuna, dopo la fuga delle venerabili madri, servitrici di Dio e della Beata Vergine Madre, restava indietro, veniva portata al cospetto del re Carlo, come se né il cielo offendessero e neanche se per questo le avessero fatto deplorevolmente soffrire”.
Passano i secoli e i Colli Sarrizzo, con la strada della “Colla” com’è indicata nelle antiche cartografie, continua ad essere intensamente frequentata perché è la via più breve per scavalcare i Peloritanti e dalla zona tirrenica raggiungere quella ionica. I fondaci, sempre presenti sin dal medio evo, sono i motel di allora, dall’arabo “funduq”, una sorta di albergo-stalla per forestieri o mercanti dove alloggiare persone ed animali, spesso nella promiscuità e nella sporcizia. Uno di questi, il fondaco “Le Monachelle”, ancora esiste lungo la via che dalle “Quattro Strade” conduce al Casale di Gesso.
Il venerdì 27 luglio 1860, dopo la vittoria a Milazzo del 20 contro l’esercito borbonico, Giuseppe Garibaldi giunge con i Mille sulle alture dei Colli Sarrizzo passando per Gesso. I soldati borbonici già dal giorno prima sono in rotta verso Messina per asserragliarsi nella fortezza della Cittadella.
Il Generale è ai Colli Sarrizzo, in località “Casazza” (così detta dai ruderi di un vasto fabbricato che secondo la tradizione era stato edificato dai re di Sicilia per le loro battute di caccia). Procede lungo la “Strada Nuova” (oggi via Palermo) e sosta, per qualche ora, nella casina dell’avv. Giuseppe Sterio all’inizio del Casale di Scala-Ritiro. I garibaldini schiamazzano, cantano, ridono, nel vasto giardino si brinda all’Italia unita. Veneti, liguri, toscani, lombardi, emiliani, piemontesi, napoletani, siciliani, sono i garibaldini del Generale, un’unica razza italiana, gente che non ha esitato un istante a lasciare famiglie e interessi economici per abbracciare un ideale, che non chiede niente in cambio e che avrebbe avuto in premio morte e immani sacrifici.
Grandi bevute, si fumano sigari.
Alto, con una folta barba da antico profeta, pacato nei gesti e semplice nel parlare, il modenese Nicola Fabrizi è con loro: è dal 1848 che si è messo agli ordini del Generale.
Verso le tre pomeridiane, Garibaldi giunge a Messina da Porta San leone alle “Fornaci”, seguito da Nino Bixio e dal figlio Menotti con una divisione.
Un altro Generale ottantatré anni dopo, in questo caso l’americano George Smith Patton, il 17 agosto 1943 con la sua 7° armata giunge a Messina attraverso i Colli Sarrizzo dalla via Palermo, diverse ore prima del feldmaresciallo britannico Bernard L. Montgomery e la sua 8° armata, vincendo la non ufficiale “Race to Messina” e portando a termine la conquista alleata della Sicilia durante il Secondo conflitto mondiale. Nonostante l’accanita resistenza delle forze dell’Asse, la Sicilia viene liberata in soli 38 giorni.
Altro personaggio, ormai divenuto storico che ha caratterizzato i Colli Sarrizzo e che caratterizza ancora oggi, fu Domenico Mazza, alias Don Minico col suo mitico locale “Casa di Cura Don Minico”. Un’avventura che ebbe inizio quando Don Minico, giovanissimo, dal Casale di Gesso dove lavorava come garzone di fornaio valicava i Colli con la cesta sulle spalle per portare il pane a Messina e si fermava nello stesso punto dove poi sarebbe sorto il locale. Con una carretta di gazzose iniziò la sua attività di vendita e quando nel 1956 ebbe in regalo una “baracchetta” in legno esposta alla Fiera di Messina, la collocò alle “Quattro Strade”, lasciò il lavoro al forno e vi si dedicò interamente. La moglie, Donna Razia, gli faceva recapitare per pranzo pagnotte con melanzane e pomodori sott’olio che spesso Don Minico divideva con operai della Forestale o cacciatori. Ma quando un cacciatore ne approfittò lasciandolo a bocca vuota, gli fece uno scherzo inserendo nel pane un piccantissimo peperoncino. Dopo averlo addentato, con le lacrime agli occhi, il cacciatore gli disse “Minicu! Mi futtisti! Stu pani è disgraziatu comu ‘a ttia! Picchì non ciù vinni ‘e cristiani?” (Domenico! Mi hai fregato! Questo pane è disgraziato come a te! Perché non lo vendi ai cristiani?): era nata così la celeberrima “Pagnotta alla Disgraziata” che da oltre 60 anni rappresenta il “cibo di strada” cult di tutta la Città Metropolitana di Messina, e non solo.
Un piatto tipico inserito nella Guida Michelin e nella Guida del Touring Club Italiano che è stato dichiarato per decreto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali “Prodotto Tradizionale Nazionale” nel 2003 e che si può consumare, appunto, da Don Minico. Una ruota di pane, la pagnotta, di farina di frumento che viene condita con olive schiacciate, melanzane sott’olio, carciofini sott’olio, pomodori secchi, pecorino pepato, salame nostrale, alloro, finocchietto selvatico, aglio, origano, qualche cappero e peperoncino rosso piccante che giustifica ampiamente il suo nome, “Disgraziata”, prodotto di eccellenza della Casa di Cura di Don Minico, “’U megghiu postu ‘du munnu”.
Nino Principato
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