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MESSINA: C’ERA UNA VOLTA…(NASCITA, VITA E MORTE DI UN TEATRO)
Il 30 dicembre del 1932 Messina ha di nuovo un teatro degno della tradizione artistica della città dei due mari. Il Peloro – questo il suo nome – sorge alla confluenza di via dei Mille con la via Tommaso Cannizzaro. Ed è un’opera imponente di stile neo-classico, frutto della fantasia e della professionalità dell’architetto Achille Manfredini, con un elegante ingresso, un ampio salone al primo piano, altre sale e 1500 posti a sedere, divisi, su quattro livelli, tra la platea, i palchi, la galleria e il loggione. Il Peloro non sfigura di fronte al teatro Vittorio Emanuele, che ha avuto i suoi anni di gloria nell’Ottocento e che, risparmiato ma fortemente danneggiato dal terremoto del 1908. dovrà aspettare ancora alcuni decenni prima di essere restaurato e restituito al suo pubblico.
Il Peloro si inaugura con “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi. E negli anni a venire avrà sul cartellone le maggiori opere liriche e le compagnie di prosa e di varietà dei più noti attori italiani, da Ettore Petrolini ad Angelo Musco, da Vittorio De Sica a Edoardo De Filippo, da Totò a Nino Taranto, da Macario a Rascel, da Carlo Dapporto a Wanda Osiris. Nel 1936 il teatro cambia nome. Mussolini ha voluto la sua impresa coloniale. L’esercito italiano ha aggredito l’Etiopia, un paese libero aderente alla Società delle Nazioni, l’ONU di allora, ed ha avuto ragione delle forze armate etiopiche. Vittorio Emanuele III può fregiarsi del titolo di imperatore e il Peloro diventa inevitabilmente “Cine-teatro Impero”.
Se ben ricordo, entro per la prima volta all’Impero nel 1940, Ho nove anni e lo zio Amilcare mi porta a vedere un film di Stanlio e Ollio. Segue uno spettacolo di varietà. Appaiono sulla scena tre attori che personificano l’Inghilterra, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il primo veste i panni di John Bull, il classico inglese delle caricature; il secondo è lo zio Sam, con il suo cappello a cilindro e il suo cravattino a farfalla; il terzo è l’orso russo. Cantano in coro: “No, non è ver, l’Italia non ha storia./ l’Italia è zero, l’Italia è tutta boria”. Ma ecco che appare l’Italia. E’ giovane e bella, ammantata di tricolore, con una torre sui capelli. E riduce al silenzio gli avversari: “Lo spirito di Dante, Mazzini, Machiavelli,/ rivive in Mussolini./ Stranieri, giù i cappelli!”. Questi erano i tempi.
Il cine-teatro riprende il suo nome originale nel 1943, quando la guerra finisce in Sicilia con l’arrivo delle truppe anglo-americane, due anni prima della conclusione definitiva del conflitto. Peloro, quindi, e Peloro sarà fino ai suoi ultimi giorni. E’ lì che anni dopo vedo Totò nella famosa scena del vagone-letto. E’ magnifico, inenarrabile. Una battuta dietro l’altra, un gesto dietro l’altro. Improvvisazioni magistrali. Siamo tutti piegati in due dalle risate.
Uno dei frequentatori abituali del cinema era il pittore Felice Canonico. Preferiva andare in platea, quasi sotto lo schermo. Ma il Peloro aveva due difetti. Nelle serate ventose uno spiffero freddo si abbatteva sulle prime file della sala, mentre un grosso topo faceva spesso la sua comparsa nello spazio compreso tra lo schermo e le poltrone. Così una sera Canonico, serissimo, si rivolge alla cassiera: “Mi dia, per favore, un biglietto di platea, un gatto e una coperta di lana”.
Ma il Peloro non contiene soltanto il teatro. Alla destra e alla sinistra dell’edificio due spazi delimitati da ampie vetrate sono adibiti a negozi. In quello di destra vende articoli da regalo Mommino Penso, l’erede dei Penso della cappelleria di viale San Martino, dove Angelo Musco veniva da Catania a comprare i suoi copricapo, sempre seguito da un folto gruppo di ammiratori. Dal primo degli ingressi che si affacciano sulla via Tommaso Cannizzaro si arriva ad una scala che, nel seminterrato, porta ai bigliardi Borgia. Due ampi saloni che ospitano decine di tavoli da bigliardo, con le buche agli angoli per il gioco “all’americana” e con le sponde integre per “la carambola”. Proprietari due fratelli (i Borgia) che si alternano nella gestione del locale. Nelle stanze del primo piano c’è la scuola di ballo del maestro Gino Lorefice. Ma non è soltanto una scuola. Nell’immediato dopoguerra è l’unico posto dove di sera si svolgano feste danzanti frequentatissime dai giovani di Messina e dai militari inglesi e americani. Lì, per la prima volta, balliamo il boogie-woogie e ascoltiamo le canzoni di successo di quel periodo, da “La vie en rose” a “Solo me ne vo per la città”.
Il teatro sopravvive ai feroci bombardamenti delle “fortezze volanti” americane che nei primi mesi del 1943 fanno di Messina la città più bombardata d’Italia. Salvo, ma gravemente danneggiato e costretto a sospendere per due anni ogni attività. Riaprirà, rimesso a nuovo, il 16 settembre 1945 con un recital canoro di Beniamino Gigli. E continuerà a vivere per 14 anni, fino a quell’infausto aprile del 1959 in cui il primo colpo di piccone darà il via alla sua demolizione. Già, perché il Peloro viene abbattuto per lasciare il posto a un anonimo palazzaccio, sede di botteghe e di appartamenti. Il Peloro muore, come sono morti gli altri cinema, il Savoia, il Trinacria, l’Odeon, il Lux, il Garden, l’Aurora. Come le librerie Ospe, Ferrara, D’Anna, come l’Irreramare e il bar Irrera di piazza Cairoli, gli stabilimenti balneari Vittoria e Principe Amedeo, il palazzo dei gesuiti, il gabinetto di lettura e tanti altri segni del passato. Che città è mai quella che uccide la sua storia, i suoi punti di riferimento, i suoi centri di aggregazione sociale?

Dal web


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