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IL SACRIFICIO DEI CAMICIOTTI, UNA PAGINA DELLA NOSTRA STORIA DA NON DIMENTICARE

Ferdinando II di Borbone, che aveva provveduto a schiacciare durante l’estate del 1848 la rivolta della Calabria, era ora pronto ad invadere la Sicilia per sottometterla di nuovo al suo dominio. I preparativi della spedizione avevano avuto inizio già a fine agosto sotto il comando del principe di Satriano, il tenente generale Carlo Filangieri. Il corpo di spedizione comprendeva 18000 uomini di fanteria, 1500 del personale di marina sulle navi cui aggiungere i 5000 uomini di guarnigione nella Cittadella, per un totale di 24500 uomini impegnati contro Messina, con 450 cannoni complessivi. Facevano parte di questa armata i migliori reparti di tutto l’esercito borbonico, ossia i mercenari svizzeri. La superiorità di forze era schiacciante da parte borbonica, poiché gli insorti potevano contare soltanto su circa 6000 uomini. Piero Pieri, il miglior storico militare italiano, riporta in proposito i seguenti calcoli nella sua “Storia militare del Risorgimento”: “Due battaglioni di «camiciotti», 1000 uomini complessivi, 400 artiglieri, 300 zappatori del genio e 200 guardie municipali; e inoltre 500 marinai cannonieri addetti alle batterie fra Messina e il Faro, i quali non presero parte alla lotta. In totale le formazioni che potremmo chiamare regolari assommavano a 2500 uomini, di cui 2000 nei punti attaccati. A queste bisognava aggiungere 2500 uomini delle squadre; 500 uomini di Guardia Nazionale e 500 altri uomini degli equipaggi delle scialuppe e inoltre 2000 elementi delle squadre dislocati lungo la costa da Galati a Forza d’Agrò al sud di Messina, e da Torre Faro a Milazzo. Nell’insieme dunque Messina disponeva di 6000 uomini armati alla meglio, addestrati in modo inuguale e senza un vero capo, contro 25000 soldati rappresentanti la parte migliore dell’esercito borbonico e con un capo, veterano delle guerre napoleoniche, d’innegabile valore ed energia.” Il 6 settembre del 1848 la flotta borbonica sbarcava sulla spiaggia del Casale di Contesse. Durante la difesa del Villaggio Gazzi, cadeva il patriota Antonio De Salvo, detto “Pagnocco”, che sul berretto portava la scritta “vincere o morire!” Raccolto dai suoi, venne condotto nella vicina chiesetta dei Miracoli, dove il suo corpo sarà bruciato con la stessa chiesa, l’indomani, dalle truppe borboniche che entravano vittoriose in città. Venne incendiato dai soldati borbonici anche l’Ospizio “Collereale”, col massacro dei malati che vi si trovavano: “Furono gli infermi, i ciechi, ed i paralitici dell’ospizio Collereale a colpi di baionetta scacciati, ed impigliandosi fra le schiere borboniche, rimasero tutti sceleratamente ammazzati. Furono arse e distrutte tutte le dimore del borgo San Clemente posto poco prima di giungere al torrente della Zaera. Da ogni parte non udivansi che lamenti e gemiti, da ogni parte non vedevansi che cadaveri mutilati, donne o fanciulli, soldati o cittadini, feriti ed agonizzanti in ogni strana attitudine o imagine di morte.” (Carlo Gemelli, Storia della siciliana rivoluzione del 1848-49, Bologna 1867, p. 76). “Cacciati a colpi di baionetta dal loro Ospizio, molti ciechi e paralitici, sorreggendosi e guidandosi l’un l’altro, cercavano a tentoni un rifugio, uno scampo: ma impigliatisi nelle file napolitane, eran tutti codardamente trucidati: i soldati napolitani, e più li svizzeri, durante la notte erano stati eccitati con vino ed acquavite, e la più parte di loro erano in uno stato di ubriachezza feroce”. (Giuseppe La Farina, Storia della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni coi governi italiani e stranieri. 1848-1849, Milano 1860, pp. 354-355.). Il giorno dopo, la Divisione del generale Pronio usciva dalla Cittadella marciando a tenaglia sugli insorti e puntando sul convento della Maddalena dei Padri Benedettini, dove si era asserragliato un manipolo del 10° Battaglione Siciliano, per la maggior parte formato da ragazzi al di sotto dei 20 anni, i cosiddetti “camiciotti”. Le autorità provvisorie siciliane avevano cercato di costituire un esercito regolare e i primi reparti costituiti avevano una divisa formata da una blusa di colore blu scuro, berretto dello stesso colore con coccarda tricolore, mostrine rosse, pantaloni di colore grigio. I messinesi li soprannominarono “camiciotti” per la blusa che indossavano e così furono tramandati alla storia. Il combattimento, con scontri corpo a corpo che si svolsero casa per casa, proseguì fino all’ultimo importante punto di difesa degli insorti, il Monastero benedettino della Maddalena di Valle Josafat. Anche membri del clero presero parte alla difesa del monastero e alcuni giovani “camiciotti” messinesi, ridotti ormai allo stremo, assediati da oltre 3.700 soldati svizzeri nel cortile del monastero, preferirono togliersi la vita gettandosi in fondo al pozzo del chiostro, pur di non arrendersi ai soldati borbonici. Erano Antonino Bagnato, Carmelo Bombara, Giuseppe Piamonte, Giovanni Sollima, Diego Mauceli, Pasquale Danisi e Nicola Ruggeri. Anche la caduta del monastero della Maddalena non segnò la fine della durissima battaglia, poiché gli insorti si difesero ancora nel quartiere retrostante, dove i mercenari svizzeri procedettero incendiando sistematicamente tutti gli edifici. La truppa borbonica non risparmiò neppure l’Ospedale cittadino, a cui diede fuoco, bruciandovi dentro molti malati e feriti che vi erano degenti: “Appiccarono il foco al grande Ospitale, e vi arser dentro malati e feriti assai”. (Giuseppe La Farina, op. cit.). La rivolta antiborbonica di Messina veniva così soffocata nel sangue il 7 settembre 1848. Antonio Lanzetta, esperto artigliere, sarà l’ultimo a far tacere il cannone nella caduta di Messina, dopo aver dato fuoco alla sua Santa Barbara che, esplodendo, ucciderà 40 soldati svizzeri.

Nino Principato


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