Condividi su

IL MONASTERO DI SANTA MARIA DI MILI
NEL DEGRADO E NELL ‘ABBANDONO UN IMPORTANTE COMPLESSO RELIGIOSO NORMANNO

Correva l’anno 1090 quando il Gran Conte Ruggero il normanno fondava, nella vallata del Casale di Mili San Pietro, il complesso religioso dedicato a Santa Maria: “[…] nel territorio della città di Messina edificai un tempio di Santa Maria Vergine nel fiume nominato di Mili, ed ordinai un convento ad un prenominato abate Michele, acciò conducesse altri monaci che potesse trovare; e comandai dare ai medesimi tutte le cose necessarie alla comodità del monastero, e all’aggregazione fraterna, affinché potessero più facilmente pregare per tutto il genere cristiano, e per me peccatore […] Inoltre donai a loro un luogo sufficiente con la mia bolla, cioè: monti, valli, campi, alberi fruttiferi […] In quel territorio poi abbiamo veduti alcuni proprietari, ai quali ho comandato, poiché così fatte proprietà tengono e posseggono, dare servitori ed obbedienza a codesto Santo monastero, e cinque pernici in ciascun anno, e di vendere non abbiano licenza […] Questi luoghi annotati di sopra, e giurisdizione loro donai al detto abate, affinché li tenga e possegga e abbi potestà in essi tanto esso quanti futuri abati, e nessuno li impedisca e perturbi, e faccia molestia o alcuno di farvi fatta giurisdizione ma li conservi stabili e immutabili sino alla fine del mondo”. Gli unici obblighi del monastero, precisava puntigliosamente Ruggero nel diploma di fondazione dato a Messina, erano quelli di dare al Vescovo in visita “[…] duos panes et unam fialam vini et non aliud” e, per se stesso, come “[…] Dominus loci et patronus … herbas et fructus”. (questo diploma di fondazione venne trasportato in latino dall’idioma greco nel 1499 da Costantino Lascaris).
Nella vallata di Mili, comunque, esisteva già un cenobio sorto in epoca bizantina e andato distrutto durante la dominazione araba. Ad avvalorare ciò, nel “Codice Vaticano Greco” 2620, copiato a Capua da un certo Ciriaco sacerdote monaco, egli si sottoscrive: “Ciriaco prete e monaco originario di Mili, l’anno del mondo 6501” (cioè, 992-993). E’ probabile che questo Ciriaco abbia abbandonato il suo Cenobio, come tanti altri, obbligato ad emigrare nel continente durante l’invasione araba.
Il complesso monastico veniva ultimato due anni dopo, nel 1092, esente dalla giurisdizione vescovile ed ha in vassallaggio gli abitanti della valle. A testimoniare la grande considerazione ed affetto che il Gran Conte nutriva per Santa Maria di Mili, lo stesso anno vi seppelliva il figlio Giordano, morto in battaglia a Siracusa:”Giace nell’antico tempio, composto in marmoreo sepolcro con apposita epigrafe […]”, scrive nel ‘700 Cajo Domenico Gallo.
Nel 1165 è egumeno Antonio, per commissione del quale il monaco Bartolomeo copia un codice liturgico.
Fra un salmodio e l’altro, fra un inno Akatisto e l’altro, scorreva senza fretta la vita nel cenobio scandita dalle ore canoniche e regolata dal “Typikon” di Luca, santo monaco basiliano che nel 1134 verrà messo a capo dell’Archimandritato del Santissimo Salvatore, sulla punta estrema della penisola falcata nell’ansa portuale. L’Abate ha compito essenziale mantenere “la vita comune pura e netta da ogni vizio e peccato”: “Durante tutto l’anno, salvo la Quaresima, i monaci mangeranno legumi e pesce. Carne e formaggio sono rigorosamente proibiti; è ammesso solo l’uso del vino nel Monastero. Tre giorni della settimana, lunedì, mercoledì e venerdì, i monaci digiuneranno. In tempo di Quaresima anche il pesce non è più permesso e i monaci non mangeranno altro che pane e fave cotte nell’acqua […] a nessun monaco è lecito tenere presso di sè oro, argento o denaro. Né l’abate né i monaci vestano calze bracate [pantaloni] e chi contravviene a questa prescrizione sia scomunicato dalla comunità e faccia degna penitenza […] I monasteri siano separati da donne, anche se religiose perché quello chi adopera lo foco accostato con la paglia questo adoperano le donne accostando ai monaci […] La pratica della donna con l’uomo è nociva assai, perché spesso tira a sè l’anima dell’uomo come la calamita attira il ferro. E’ pure proibito fare tenere figlioli in Christo, cioè ragazzi nel monastero, per evitare peccati più gravi [contro natura] e più facili per l’occasione […] Proibita ogni specie di caccia. Una sola caccia è permessa al monaco: la virtù”.
Sabato 4 maggio 1364 muore l’egumeno Barnaba e, nel 1478, viene nominato abate commendatario nientemeno che il sovrano Alfonso d’Aragona in persona che, in tale veste, ha diritto di voto nel Parlamento siciliano. Nel 1542 l’imperatore Carlo V concede le rendite di Santa Maria di Mili all’Ospedale Grande di Messina e per altri tre secoli il monastero è, non soltanto culla dell’ascetismo basiliano, ma centro di cultura dove copisti e miniaturisti riproducono antichi codici liturgici. Fino a quando arriva la mazzata, sottoforma della cosiddetta “legge eversiva” sullo scorporo dei beni ecclesiastici e soppressione degli Ordini monastici, nel 1866: il complesso abbaziale viene ceduto a privati ed ha inizio, così, la sua lenta ed inesorabile decadenza, venendo addirittura riconvertito in porcilaia e stalla per bovini.
Oggi, nel silenzio di morte rotto di tanto in tanto soltanto dal vento che sbatacchia vecchi usci tarlati, un tempio di mirabile architettura nel quale si condensano le varie tendenze e correnti d’arte prevalentemente arabe e bizantine esistenti in Sicilia, in un’epoca cosmopolita quale fu quella normanna, va lentamente scomparendo. Sul portale d’ingresso al complesso monastico, un bassorilievo raffigura lo stemma dei Basiliani, la “colonna di fuoco” apparsa in visione al fondatore, San Basilio Magno di Cesarea in Cappadocia (329-379). Episodio così riportato nelle cronache coeve: “Raptus ignis columnam in eo conspexit vocemque audivit talis est magnus Basilius” (Stupito, fissò lo sguardo in quel luogo; vide una colonna di fuoco e sentì una voce che diceva questo è il grande Basilio).
Un pregevole portale marmoreo del 1511 di accesso alla chiesa con un bel bassorilievo raffigurante la Madonna col Bambino; l’interno con in fondo le tre piccole absidi in mattoni, la centrale e le laterali, la “pròtesis” dove si preparavano il vino e il pane destinati al sacrificio della messa e il “diacònicon” dove avveniva la vestizione dei celebranti e si conservavano gli argenti sacri dove aleggia, palpabile, una mistica atmosfera medievale; la cupola di matrice araba sostenuta agli angoli da delicati archetti pensili sovrapposti; la preziosa trina degli archi ogivali nel prospetto laterale che si rincorrono e si incrociano, armoniosamente, presso la cuspide, emergono in un contesto di desolante sfacelo.
Come gigli in un campo di fave.

Nino Principato


Condividi su

Categories:

Tags:

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *