Dicearco da Messina…
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Nacque nel 316 a.C. a Messina da Fidia, ed egli fu uno dei più grandi discepoli di Aristotele. Nel 300 a. C. si dice anche che in Messana tenne un liceo, sullo stile di quello aristotelico in Atene, molto noto e frequentato. Si sa che fu profondo nella Filosofia, nella Storia e nelle Matematiche. Indagò molto e con acume la natura dell’animo umano e fu il primo ad applicare la psicologia allo studio della Psiche Umana. Scriverà infatti in uno dei frammenti ritrovati un’altra rivoluzionaria invenzione concettuale e cioè che la Vita “Attiva e responsabile” fosse superiore a quella contemplativa e che la decadenza è dovuta infatti ad un uso non ortodosso della ragione. Inventa inoltre la carta geografica nel senso scientifico della parola. Si occupò anche della Mantica (Solo il sapiente può essere indovino), del Costume, dell’Etica, come indagine sui generi di vita dunque diventa, come già detto prima, forte sostenitore del prima della PRATICA sulla TEORIA. Fu anche narratore attento e preciso della vita di Pitagora, se oggi noi tutti conosciamo quasi menadito la Storia del pitagorico lo dobbiamo proprio al messinese Dicearco e ad Aristossene che sono state le uniche due figure, gli unici due biografi della vita del filosofo di Samo. Ecco che anche in chiave di storico Dicearco si fa largo nella storia della Magna Grecia Italiana. Pitagora, quest’ultimo personaggio, celato dal mistero delle sue pratiche conosciute solo ai suoi iniziati e famoso per aver inventato un teorema che ha accompagnato generazioni di alunni nelle scuole di tutto il mondo, non aveva segreti per il messinese che lo doveva conoscere molto bene soprattutto in tutte le sue sfaccettature esoteriche e iniziatice, infatti spesso in alcune opere Dicearco cita con grande entusiasmo il matematico di Samo prima e Crotone dopo. Fu tutto pensate anche Medico, Giurista e Poeta celebrato da tutti gli antichi scrittori. Esso compose anche una Storia su Sparta, che quei re avevano pubblicato doversi leggere ogni anno pubblicamente per istruzione della gioventù. Delle sue opere restano ai posteri solo pochi frammenti: Anima, Mantica, Vita pratica (in cui si riduce il valore della vita teoretica); significativi sono i saggi detti Tripolitico, Su Alceus, (At. 461; e) Stato di Grecia e Itinerario intorno al mondo. Importante il cammino seguito da Dicearco, nell’ambito dei suoi studi geografici, infatti egli ricevette l’incarico di misurare i monti del Peloponneso e secondo Plinio, fu proprio da Dicearco che si seppe per la prima volta nella Storia che il Pelione era alto 1250 passi. Questo saggio sulla Descrizione della Grecia venne dedicato a Teofrasto. Il suo pensiero si allinea dunque a quello della scuola peripatetica durata diversi secoli – dal IV secolo a.C. al VI secolo d.C. – e strutturata come un v ero istituto scientifico con ordinati programmi di studio. La curiosità legata allo strano nome ricevuto dalla scuola è inevitabile; infatti il Perìpato era il lastricato del porticato interno del Liceo di Atene: Aristotele teneva le sue lezioni passeggiandovi coi suoi allievi. Il progetto fattivo della scuola viene riflesso nel pensiero dei suoi adepti, che respingono l’atteggiamento della contemplazione in favore di una sistematica, concreta comprensione dei vari aspetti del reale. La sua Vita della Grecia è con molte probabilità la prima storia della cultura greca, dall’età mitica fino all’età contemporanea, orientata a rivalutare il progresso storico, con l’analisi dei vari accadimenti. Altri frammenti analizzano l’essenza della musica e il suo agire a livello fisico, anche curativo: ci lascia pensosi leggere pur oggi di giovanetti ritornare alla vita cosciente, dopo anni di stato comatoso, ascoltando una particolare canzone del loro musicista preferito. La musica veniva intesa da Dicearco in armonia con la stessa armonia dell’anima. Almeno un trattato su tale argomento ha scritto Dicearco, se ne ha traccia in Ateneo ( I, 14, d), e nella Suida:
“Obliquo, o canto nel vino. Come Dicearco dice nel trattato de’ musici certami, tre sorta di canzoni vi avea: una che si cantava da tutti, ad uno ad uno gradatamente, l’altra, che si cantava da’ più esperti, come avveniva per ordine, e quella che si chiama per l’ordine modo obliquo di cantare” (in I frammenti di Dicearco da Messina, a cura di Celidonio Errante, tip. Lorenzo Dato, Palermo, 1822).
I più grandi storici e scrittori come Cicerone, Plutarco e Ateneo, citano i titoli di molte delle sue opere e le lodano; sicché egli deve convenirsi che Dicearco da Messina fu uno dei più bei ingegni dell’antichità , degno discepolo di Aristotele, superiore forse – scrive Giuseppe Ortolani – a tutti gli altri suoi discepoli…
Così ci parla del suo pensiero Cicerone:
“…tramite il suo oratore afferma che l’anima non esiste, che è solo un nome e niente più, che è inutile ricordare l’esistenza degli animali, che in entrambi, nell’uomo e nella bestia, non v’è anima di sorta. La forza che ci fa agire, noi e loro, è parimenti presente in ogni essere vivente, e non si può separare dal corpo fisico, che ha vigore e sensi per dono di natura (…). (Tusculane)
Ed ancora l’illustre romano nel De divinatione ci consegna un frammento del pensiero del messinese:
“L’autorevole scrittore Democrito ha dichiarato più volte di ammettere la preveggenza, ma Dicearco il peripatetico ha negato ogni sorta di divinazione, esclusa quelli arrecata dai sogni d’ira” (I, 3, 5). E prosegue il parallelo di idee tra i due ad opera di Agathemerus: Per primo fu il dotto Democrito ad accorgersi che la terra è oblunga, con lunghezza una volta e mezza superiore alla larghezza; ed anche il peripatetico Dicearco è dello stesso parere”. ( I; 1, 2)
Ateneo, invece si limita a riferire pagine usate, da Dicearco come cornice per inserirvi poi dei dialoghi d’argomento politico:
“Riguardo alla cena consumata dai compagni di mensa, Dicearco segnala quanto segue, nel lavoro intitolato Tripolitico: ‘La cena è d’apprima servita ad ciascheduno separatamente, e ciò non causa divisioni di alcun tipo col proprio vicino. Dopo ciò si ha un dolce d’orzo abbondante come lo si vuole, e riguardo al bere una coppa è sempre pronta a lato in caso di sete. L’identico piatto di carne viene offerto a tutti in ogni evento: una porzione di maiale lesso.
Qualche volta, comunque, anche meno vien dato, a parte la carne del peso non superiore a ‘cento grammi’. Altro non c’è, oltre questo, tranne ovviamente il brodo di detta carne, in quantità sufficiente a tutta la compagnia durante tutta la cena. Possono esservi una oliva, o del formaggio o un fico; occasionalmente si aggiunge qualcos’altro: un pesce, della lepre, del piccione o altro simile.
Dopo, quando essi finiscono in fretta la loro cena, girano per la tavola le cosidette epaikla. Ogni membro contribuisce alla mensa con circa tre mezzi medimni di orzo, unità di misura Attica, e forse con undici o dodici brocche di vino; oltre a ciò con una forma di formaggio e dei fichi, ed inoltre, per disporre di carne, con circa dieci Aeginetan'”. (Ateneo; 141, a; op. cit.).
“Poiché Dicearco da Messina, il pupillo di Aristotele, afferma, nel suo libro Su Alceus che essi (i primi Greci; n.d.A.) erano soliti usare piccole coppe e bevevano vino misto a troppa acqua. Però questa è, a dire il vero, non una tradizione dei Greci, ma è una recente trovata appresa dai Barbari. E ciò a causa del loro essere digiuni d’ogni cultura, alla quale rimediano con l’uso di grandi quantità di vino e più cibo d’ogni sorta del necessario. Però nelle regioni greche noi non reperiremo mai una coppa che è stata costruita molto grossa, neppure dipinta e neppure (*; frammento perso; n.d.A.) in tempi più recenti; fatta eccezione per le coppe in onore degli uomini eroi”. (461; a, b, c).
E sempre nel lavoro Su Alceo, Dicearco viene citato per confermare che il termine latages (gocce di vino rimaste nel fondo del bicchiere, n.d.A.) è termine siciliano. Se ne parla a proposito del gioco casalingo Cottabos, durante il quale gli invitati a pranzo lanciavano in direzione di un contenitore posto al centro della sala da pranzo, quanto rimaneva nelle coppe di vino.
“Il gioco del cottabos, principalmente, è una invenzione siciliana; i Sikelos furono i primi ad inventarlo, come Crizia, il figlio di Callescro, dice chiaramente in Versi Elegiaci, con tali parole: ‘Il cottabos è il primario prodotto siciliano; noi ci predisponiamo a colpire un segnale con gocce di vino (latages)”. (666; b). La difficoltà consisteva nell’imprimere il giusto moto alla coppa rimanendo sdraiati su di un fianco, e limitandosi a muovere solo il polso del braccio libero. Il movimento di lancio con piegatura del polso era detto ankylé.
Ed ancora Ateneo prosegue i suoi interventi citando anche Dicearco:
“Egesandro di Delfi nei suoi Commentarii, che iniziano con la frase, ‘Nella forma migliore di governo’, asserisce: ‘Il giuoco denominato kottabos venne introdotto al loro simposio, e gli abitanti della Sicilia, concordando in ciò con Dicearco, furono i primi a praticarlo’ (…)”. (479, d).
L’opera che dà oggi fama a Dicearco è dunque Vita della Grecia, che inizia da una mitica età dell’oro – Età di Crono – per giungere al luogo comune pur oggi della decadenza umana del suo tempo, per la stoltizia degli uomini, gli unici responsabili dell’andamento delle loro vite e dell’agire del destino.
Nel Tripolitico invece sono raccolte costituzioni di stati greci, con una chiara trattazione dello stato perfetto, indicato in una sintesi delle tre forme politiche fondamentali, monarchia, aristocrazia e democrazia; da realizzare con l’attività concreta, mettendo da parte idee precostituite metafisiche, e mirando ad una costruzione razionale del suo mondo. Un esempio di analisi politica lo abbiamo anche con la Repubblica degli Spartani, della quale si tramanda che dovesse essere letta, per ordine del goveno, in piazza una volta l’anno a scopo educativo.
Nel Peri Psyches in contrasto con lo stesso Maestro Aristotele sostenne che l’anima è solo una forza vitale uguale per tutti gli essere viventi, ed è destinata a dissolversi dopo la morte. Ma in altre teorie venne in contraddizione con se stesso, sostenendo come per le idee sulla Mantica, una capacità propria dell’anima quando si trova in particolari condizioni.
Oltre libri di puro stampo filosofico scrisse Le Ipotesi dei Drammi di Sofocle ed Euripide e Itinerario intorno alla Terra.
Un Dicearco che si occupa anche di argomenti più leggeri ce lo riporta il solito Ateneo ( I, 14, d):
“Le danze per le opere di Omero sono in qualche caso eseguite da acrobati, ed in altri casi, sono accompagnate da giocatori di palla, la cui inventiva va a Nausicaa, a detta di Agallis (…) Però Dicearco assegna tale merito ai Sicioniani, nonostante Hipposus renda i Lacedemoni pionieri di questo come di tutti gli esercizi ginnici”. (Ateneo, I Deipnosofisti, op. cit.).
Da ricordare è inoltre l’Itinerario intorno alla Terra, che è una autorevole opera geograficha, ma sopratutto ci mostra per la prima volta – prima di Eratostene – una carta dotata di due linee di riferimento, una sorta di accenno alla odierna suddivisione topografica in meridiani e paralleli. Ecco che si può tranquillamente affermare che Dicearco fu l’inventore dei nostri Meridiani e Paralleli.
Abbiamo elencato sin qui le opere di Dicearco, e non possiamo non notare che in esse la Sicilia e la sua realtà sono escluse: con Dicearco l’isola non è più davvero sede di colonie; oltre ad aver offerto nuove arti drammatiche, adesso è parte integrante della cultura del pensiero greco. I pochi frammenti che di lui rimangono testimoniano interessi culturali vasti e varii: storia, politica, geografia, musica, letteratura, e lo studio della personalità di alcuni grandi uomini. Il tutto era racchiuso in sei libri, seguendo la diffusa cornice del dialogo, tenutosi nelle città di Corinto e Lesbo. Il mondo degli dei era considerato con lo stesso atteggiamento di Evemero da Messina, suo concittadino, nato cioè da ricordi di avvenimenti storici vissuti da uomini reali. A ciò ha dato il suo impulso l’azione di Alessandro Magno, che col suo incedere per l’Asia ha allo stesso tempo allargato i confini geografici noti alla cultura del tempo con conseguenze culturali paragonabili a quelle derivate dalle imprese di uomini come Marco Polo o Cristoforo Colombo. Si sa che durante il cosidetto, erroneamente, periodo buio del Medio Evo la cultura classica venne messa in disparte; per dirla in un rigo, era impossibile conciliare il preponderante potere religioso, attivo come non mai in campo politico e sociale, col vario filosofare ellenico e con la disinvolta condotta di vita delle classi agiate greche. Essi adoravano dei dalla condotta di vita divina peggiore di quella praticata dal più materiale dei pensatori del tempo; l’unico traguardo che il dio pareva ponesse all’uomo era quella di vivere secondo il rispetto dei culti e d’una condotta di vita onorevole, in guerra più che altro. A ciò va aggiunto che le opere dell’epoca non rinunciavano a descrivere usi e costumi anche licenziosi, e molte pagine di simile tono rimasero ben nascoste, o furono rimesse in circolazione durante l’allargamento dei domini arabi, ove la cultura ed i suoi traguardi non avevano da sottostare ai dettami del culto; o per lo meno non come nell’Europa medioevale. L’unico valore che potè andare oltre i dettami del Cristianesimo fu quello del denaro, lucrato sulle vite di interi popoli come in Sud America; sono storicamente accertati gli sterminii in quelle nuove terre ( Leggi la Storia delle Indie di Bartolomeo de Las Casas). Siamo tentati di porre in relazione codesta colonizzazione con quella delle genti greche in Sicilia e nel Sud d’Italia ma non ne abbiamo i presupposti nelle fonti; però quando si parla di guerre, come quella che vide in campo i Siculi guidati dal principe Ducezio, non si trovano riferimenti ad eliminazioni sistematiche delle genti avverse; lo stesso Ducezio, sconfitto nel 450 a.C. venne esiliato a Corinto, libero al punto che potè ritornare alle sue lotte nel 446.
Valgono per tutte le cose prima dette le seguenti citazioni:
“Come dice Dicearco, Dario III fu accompagnato in battaglia da 360 concubine”. (514, b; nota a).”‘Così trecento donne lo accudivano’, riferisce Heracleide di Cuma nel primo libro della sua Storia Persiana. ‘Queste dormivano per tutta la durata del giorno, in modo da poter vegliare la notte, quando giocavano e suonavano con arpe costantemente, alla luce delle lampade, ed il re otteneva i suoi piaceri da loro, come concubine (…). Queste formavano la sua guardia del corpo, ed erano tutte Persiane di nascita, e portavano nell’inpugnatura dei loro giavellotti mele d’oro. Erano selezionate, un migliaio, per rango dai diecimila Persiani denominati gli Immortali'”. (514; b, c).
Ed un frammento attribuito al messinese mostra un Re Alessandro sinora poco noto e pur sempre resoluto nelle sue azioni:
“Dicearco, comunque, nel suo libro Sul sacrificio di Ilio dice che egli era così travolto da amore per l’eunuco Bagoas che, sotto gli occhi dell’intero anfiteatro, egli cingendolo accarezzò Bagoas appassionatamente, e all’applaudire ed acclamare della folla, molto volentieri ancora lo abbracciò baciandolo”. (603; b).
Fu un messinese a raccontare per primo la fondazione di Napoli!
Egli fu anche il primo a raccontare delle origini della città di Napoli dando coordinate e posizioni esatte dei luoghi, eccone un frammento che lo stesso filosofo messinese trasse da un altro Dicearco che in quel periodo si trovava a Messana, chiamato il Cumano, sicuramente parente dello stesso discepolo di Aristotele:
.. di lui appunto (1) mi è avvenuto di trovare questa testimonianza (2): “Nell’ inverno del primo anno della settantasettesima Olimpiade (3), al cominciare del giorno nel quale il sole, sorgendo, irradia dal punto dell’orizzonte più vicino al mezzogiorno (4), essendo stati assoggettati alla giurisdizione cumana gli abitanti di Partenope, noi cittadini e soldati di Cuma, sotto la guida del nobile e saggio Ileotimo, figlio di Timanore, esperto nella sapienza di Pitagora, abbiamo risalito all’alba il sovrastante colle (5) fino alla sua vetta, allo scopo di prendere gli auspici per la fondazione di una nuova città in un sito più ampio ed agevole di quello che chiamano Euploia (6), ove è ristretto l’abitato di Partenope.
Al primo raggio di sole il nobile e saggio Ileotimo, arconte e sommo sacerdote, ha segnato con un regolo sul terreno appositamente e per largo tratto già spianato la direzione di quel raggio (7), dal punto di incontro tra la linea di mezzogiorno (8) e quella ad essa perpendicolare sulla quale il giorno e la notte si equivalgono (9). Ha fatto quindi di tal punto centro di un grande cerchio e unito con un tratto del regolo (10) i due incroci di esso cerchio con la direzione del sole e con quella equinoziale dalla parte di oriente. Ripetutosi dieci volte lungo il cerchio lo stesso tratto, è apparsa sul terreno la figura a dieci lati consacrata da Pitagora alla divinità che misura l’universo e simbolo della sua dottrina (11). Già in Partenope…. (12). Il nobile e saggio Ileotimo, guida del popolo di Cuma nel cammino della sapienza, ha mostrato essere questo un chiaro segno della benigna disposizione della divinità che governa il mondo verso la nascente città e da tal segno ha stabilito che si prendesse fausto presagio, imprimendolo nel suolo della nuova città col sacro vomere dei fondatori (13). A tal fine ha diviso in quattro parti il cerchio con le due linee solari (14), poi in otto, infine in sedici, e della sedicesima parte dalla linea equinoziale verso settentrione, dal lato di oriente (15), ha deviato il regolo, volendo che quella fosse la direzione rispetto alla quale, come a propria base, si sarebbe misurata la nuova città (16). Questo egli diceva di fare, deviando cioè il regolo di un sedicesimo di giro dalla linea equinoziale, perché i posteri riconoscessero che il fatto era avvenuto proprio nel giorno dell’anno in cui era avvenuto (17).
Quindi ha stabilito nella misura di sei stadi in piano sulla linea di base la distanza, dal luogo dov’era (18), del muro della nuova città e che questa avesse perimetro quadrato, ortogonalmente alla linea di base, assegnando a ciascun lato la lunghezza di cinque stadi. La parte della linea di base compresa tra le mura segnerà , secondo come egli ha prescritto, la “plateia” verso Noto (19); in sua corrispondenza si traccerà quella verso Borea (20), in modo tale che la linea equinoziale corra proprio da un estremo dell’ una a quello opposto dell’altra (21): nel mezzo tra le due si farà la mediana, la quale sarà ad eguale distanza dai muri di Borea e di Noto (22).
Gli “stenopoi” (23) si estenderanno dal lato di settentrione a quello di mezzogiorno: saranno due, distanti dai muri come le due “plateiai” estreme. In questo modo ci sarà nel mezzo un quadrato: nel quale, mancando lo “stenopos” mediano, di questo solo un tratto correrà tra la “plateia” mediana e quella di mezzogiorno, per essere annuo gnomone (24).
Il punto medio della “plateia” di mezzo sarà il luogo dell’ “agorà ” (25), presso la quale sarà eretto un altare ai figli di Zeus, signori della luce e delle tenebre (26). Da tal punto come centro, infatti, se si conduce un cerchio toccando all’interno i quattro lati della città , su esso lo scostamento dello gnomone dalla linea di mezzogiorno segnerà luce e tenebre nel giorno degli auspici (27). Là , poi, dove il cerchio taglia la “plateia” di mezzogiorno dalla parte di oriente, il regolo di tanto devierà dalla medesima verso Noto di quanto il sole oggi al suo sorgere ha deviato dalla linea equinoziale(28). La strada che, così come il regolo, si disgiungerà dalla “plateia” sia sigillo impresso nel corpo stesso della città (29) dall’oracolo che ha consacrato Neapolis alla divinità misuratrice del cosmo (30).
Questo ho riferito, perché si sappia per sempre, io Dicearco, figlio di Archileo, cumano”.
Infine piccola chicca: Secondo le coordinate di Dicearco Atlantide aveva come suo Istmo proprio la città di Messina, infatti dirà che dal peloponneso è più distante la fine dell’adriatico che non le colonne di Ercole.
Giovanni Majolino
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