LA CHIESA NORMANNA DI SANTA MARIA DI MILI DOVE LE PIETRE DIALOGANO COL DIVINO
Correva l’anno 1090 quando il Gran Conte Ruggero il normanno fondava, nella vallata del Casale di Mili San Pietro, il complesso religioso dedicato a Santa Maria: “[…] nel territorio della città di Messina edificai un tempio di Santa Maria Vergine nel fiume nominato di Mili, ed ordinai un convento ad un prenominato abate Michele, acciò conducesse altri monaci che potesse trovare; e comandai dare ai medesimi tutte le cose necessarie alla comodità del monastero, e all’aggregazione fraterna, affinché potessero più facilmente pregare per tutto il genere cristiano, e per me peccatore […]”. Per i monaci gli unici obblighi erano quelli di dare al Vescovo in visita “[…] duos panes et unam fialam vini et non aliud” e per sé stesso, precisava Ruggero, come “[…] Dominus loci et patronus … herbas et fructus”.
Il complesso monastico veniva ultimato due anni dopo, nel 1092 e a testimoniare la grande considerazione e affetto che il Gran Conte nutriva per Santa Maria di Mili, lo stesso anno vi seppelliva il figlio Giordano, morto in battaglia a Siracusa.
Osiamo rompere il silenzio dei secoli per entrare in comunione col divino attraverso il simbolo e perciò ci vestiamo dell’abito del pellegrino medievale per capire, per conoscere, per inebriarci di Spirito. Ci accoglie il Maestro d’Opera che ha edificato la chiesa, quel Maestro d’Opera che ricerca lo Spirito attraverso un’architettura, una scultura. Per lui, costruire la chiesa significa trasformare giornate comuni in giornate esaltanti. Sa che il fine del suo lavoro è quello di far raggiungere l’armonia fra gli uomini e le donne e con loro stessi. Sa che la pietra che sta dormendo nella cava si sveglierà e risorgerà nel tempio. Non conosceremo mai il suo nome perché lui si è annullato, ha allontanato da sé la vanità, non appartiene più a sé stesso, è morto per poi risorgere nel corpo del tempio che ha costruito e perciò non morirà mai. L’artigiano non conta, il tagliapietre non conta, il carpentiere non conta, lo scultore non conta, solo l’Opera realizzata farà splendere di bellezza la luce immateriale che viene dal Creatore.
Vedendo la chiesa di Santa Maria di Mili, non con gli occhi fisici ma con il terzo occhio, quello dell’anima, il Maestro d’Opera ci spiega che le sue fondamenta sono la fede, la sua altezza la speranza, la sua larghezza la carità, la sua lunghezza la perseveranza, quattro virtù che costruiscono l’uomo e la donna, come costruiscono il tempio.
Ad est è rivolta l’abside perché ad oriente nasce la luce e con essa l’impulso creatore mentre nella direzione opposta, ad ovest dove la luce muore, c’è il giudizio finale, la verità su ciò che abbiamo fatto ed abbiamo saputo sprigionare di buono dalla nostra esistenza.
Entriamo e tre archi ad ogiva costruiti sul triangolo della Trinità sono la mediazione, il tramite fra noi e il divino. Divino che alberga nell’abside maggiore e nelle due piccole absidi laterali, quasi nicchie ricavate nello spessore murario in poveri mattoni dove aleggia, palpabile, una mistica atmosfera medievale: a sinistra la “pròtesis” dove si preparavano il vino e il pane destinati al sacrificio della messa, a destra il “diacònicon” dove avveniva la vestizione dei celebranti e si conservavano gli argenti sacri.
Sopra di noi la cupola sostenuta agli angoli da tre delicati archetti pensili sovrapposti che consentono il passaggio dal quadrato di base (la terra, la materia) al cerchio d’imposta (il cielo, lo spirito) attraverso la mediazione dell’ottagono (Resurrezione di Cristo e promessa di rinascita a nuova vita dell’umanità, equilibrio cosmico).
Fuori, nel prospetto meridionale, i mattoni sapientemente disposti formano una preziosa trina di archi ogivali (ancora il triangolo della Trinità) che si rincorrono e si incrociano, armoniosamente, presso la cuspide.
Il Maestro d’Opera dell’anno Mille ci saluta per lasciarci nelle buone mani di un altro Maestro che verrà dopo di lui, nel 1511. È lui che ha ideato il pregevole portale marmoreo di accesso alla chiesa con un bel bassorilievo al centro dell’architrave raffigurante la Vergine col Bambino. Le mensoline raffrontate che lo sostengono hanno la forma di foglie d’acanto, e allora ci spiega che queste foglie sono di una pianta che cresce in terreni non coltivati e perciò simbolo di verginità. Ma anche di Resurrezione e ci racconta di una leggenda greca quando la nutrice di una fanciulla corinzia, morta giovane, sulla sua sepoltura aveva posto un cestino con i suoi oggetti più cari e l’aveva protetto con una tegola. L’architetto Callimaco che si trovò a passare da lì, vide la tegola sollevata da un cespo di foglie d’acanto, quasi a simboleggiare l’immortalità della ragazza e se ne ispirò inventando il capitello di ordine corinzio.
Ai lati dell’architrave, due capitelli ostentano due delfini alati con le code intrecciate: sono i salvatori di santi dai naufragi e a Messina portarono sul dorso il prodigioso dipinto della “Madonna di Dinnammare”. Nell’iconografia cristiana testimoniano il trionfo di Cristo su Satana, sono il simbolo di Cristo, Colui che guida alle “rive più sicure” del cielo.
Mentre ci allontaniamo, lo sguardo spazia verso il cielo e incrocia un bassorilievo sul portale d’ingresso al complesso monastico: raffigura lo stemma dei Basiliani, la “colonna di fuoco” apparsa in visione al fondatore, San Basilio Magno di Cesarea in Cappadocia (329-379). Episodio così riportato nelle cronache coeve: “Raptus ignis columnam in eo conspexit vocemque audivit talis est magnus Basilius” (Stupito, fissò lo sguardo in quel luogo; vide una colonna di fuoco e sentì una voce che diceva questo è il grande Basilio).
“I simboli sono lampade sul nostro cammino, le stelle che ci guideranno per uscire da un’esistenza anarchica e diventare uomini nuovi, pietre della Cattedrale che si continuerà a costruire fino alla fine dei tempi” (Christian Jacq)
Nino Principato
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