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I VESPASIANI

“Storia degli orinatoi pubblici a Messina”

Guai a farsi scappare la pipì mentre si è in strada, oggi: durante la ricerca affannosa, ma il più delle volte inutile, di un pubblico esercizio dotato di servizi igienici funzionanti, si rischia di farla…addosso. Eppure a Messina, in un passato neanche tanto remoto, le strade e le piazze pullulavano di orinatoi e latrine sotterranee o in quota, benemeriti servizi che davano pronto sollievo al viandante in impellente necessità di svuotare la vescica. I dotti e gli acculturati li chiamavano “vespasiani” e il motivo è da ricercarsi quando, nella Roma imperiale, c’erano 144 latrine pubbliche e diverse altre gestite da privati. Questi ultimi, dall’urina, ricavavano l’ammoniaca necessaria alla concia delle pelli. L’imperatore Vespasiano (9 -79), nella costante ricerca di nuove tasse per favorire l’incremento delle entrate per l’erario, si inventò la cosiddetta “centesima venalium”, un’imposta simile al l’IVA sul piscio raccolto nelle latrine gestite dai privati e venduto ai conciatori di pelle. Lo storico romano Svetonio (70 – 126) in “De Vita Caesarum” VIII, 23,3, racconta in proposito un aneddoto, poi ripreso da Dione Cassio (155 – 229) in “Storia” LXV, 14,5: il figlio di Vespasiano, Tito, aveva rimproverato il padre per quella tassa non certo edificante e in segno di sfida lanciò alcune monete in uno dei bagni. L’imperatore, senza scomporsi, le raccolse e avvicinatole al naso del figlio gli domandò se avevano cattivo odore e alla sua risposta negativa, soggiunse: “Pecunia non olet”, sed urina si”, cioè, “il denaro non puzza, eppure viene dalle urine”. Da questo episodio nacque l’omonimo detto, ancora in uso, per significare che qualunque sia la provenienza, “il denaro è sempre denaro” e quindi il valore della moneta non dipende affatto dalle sue origini. Nella Messina dell’Ottocento le case, non dotate di servizi igienici, costringevano gli abitanti ad usare il “càntaro”, vaso da notte che in camera da letto aveva un suo luogo deputato, un alto comodino che lo custodiva e perciò detto “cantàrano”. Ma non tutti i Messinesi erano rispettosi delle regole e spesso le profumate deiezioni venivano impunemente scaraventate fuori dalle finestre e chi s’è visto s’è visto. Ciò che provocava accese proteste, come si legge in un articolo della “Gazzetta di Messina” di fine ‘800, riportato da Enzo Caruso:
“È una vergogna, Signor Sindaco! È giunta l’ora di impedire agli abitanti delle case che stanno lungo il torrente Portalegni (l’odierna via Tommaso Cannizzaro), di gettare al mattino il contenuto degli Oriali dalla finestra!”.
La città era, comunque, ben dotata di pubbliche latrine in rapporto alla superficie dell’abitato prima del sisma del 1908. Dopo il terremoto, in quel frenetico e imponente cantiere di ricostruzione che era Messina, si pensò giustamente e molto saggiamente di inserire un cospicuo numero di pubbliche latrine e orinatoi, progettati dall’Ufficio tecnico comunale negli anni 20 e 30. A dispetto della loro funzione, si trattava di piccoli capolavori di raffinato gusto estetico tendente al Liberty, lo stile eclettico – floreale che imperava in quegli anni. In metallo o in cemento armato, a uno, due o quattro posti, dalle belle decorazioni e dotati di tettoie per ripararsi dalla pioggia e con le parti basse delle pareti di chiusura rigorosamente aperte per consentire ai fruitori di vedere le gambe dell’utilizzatore di turno e rendersi conto, quindi, se erano occupati o no, i “vespasiani” scomparvero impunemente tutti alla fine degli anni ’70.
Sarebbe il caso di ripristinare queste sante e utili istituzioni, magari a pagamento per risollevare le disastrate finanze del Comune di Messina, perché “Pecunia non olet”.
Parola di Vespasiano!

Nino Principato


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