I GARGOYLE DI MESSINA
Ci scrutano dall’alto, si fanno beffe di noi che abbiamo lo sguardo ad altezza vetrine, loro, che hanno visto questa città risorgere come l’araba fenice dalle sue stesse fumanti macerie dopo il 1908 e che ne avrebbero di cose da raccontarci, ma i nostri sguardi sono desolatamente ad altezza vetrine. E allora dialogano a distanza tra loro, in alto, sfuggendo alle nostre orecchie soffocate dai clacson e dai frastuoni urbani e osservano, con distacco, questa città e i suoi umani che si affannano con gli smartphone violentemente torturati da dita selvagge.
Era un tempo, quando sono nati da un ventre pulsante di sommovimenti, che badava ai simboli, che si nutriva di allegorie, che fantasticava di grottesche e di gargoyle medievali accarezzati con delicatezza da un architetto che si chiamava Gino. Ed era un tempo di orgoglio, di grande bellezza, di grandi artigiani e cementieri che vestivano dell’abito più buono le facciate dei palazzi: Bonfiglio, Sutera, Lovetti, D’Arrigo, Filloramo, alchimisti degli anni 20 e 30 del Novecento che trasformavano in oro pasta cementizia e gesso.
Ci scrutano dall’alto, immobili e silenziosi ma stanotte, mentre la città dormiva, ho veramente udito le cariatidi cantare, ho visto i fregi danzare sui balconi, i mostri raccontarsi del loro dolore e della loro pena di non essere né figure angeliche e nemmeno umane, della loro pena di non essere salvati, prigionieri come sono della materia. E ho sentito il clangore delle catene della spirale di ferro che tutto trita mentre il loro canto si elevava sempre più forte, sempre più assordante…
All’alba si chetano, illuminati dal sole ci scrutano dall’alto, si fanno beffe di noi che abbiamo lo sguardo ad altezza vetrine e ci affanniamo con gli smartphone violentemente torturati da dita selvagge, attendono senza fretta, guardano con distacco questa città finché tutto cadrà nella polvere.
Nino Principato
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