Le origini e la storia dell’Arancino Siciliano sono controverse. In verità non esiste un vero e proprio inventore. Infatti, si sta parlando di un cibo nato dalla tradizione popolare e che ha subito molte trasformazioni nel corso della storia. Le varie versioni (arancino a punta o arancina rotonda) che oggi gustiamo con tanto amore non sono altro che il risultato di queste variazioni.
Tutto iniziò durante la dominazione araba (827-1091), che in 200 anni portò nell’isola cultura, poesia, arti, monumenti stupendi e, in particolare, la cucina.
L’uso delle spezie, dello zucchero, dei profumi sono solo alcune delle caratteristiche della cucina siciliana che hanno una forte impronta araba così come la cassata, il cous cous, la granita e l’arancino sono solo alcuni dei piatti tipici dell’isola che non esisterebbero senza gli arabi.
In particolare, per quanto riguarda la storia dell’Arancino Siciliano, è certo che gli arabi erano soliti mangiare il timballo di riso (inventato dall’emiro Ibn al Thumna) aromatizzato con lo zafferano. Durante i banchetti infatti, si collocava un vassoio carico di riso allo zafferano al centro della tavola e lo si consumava appallottolandolo nel pugno e condendolo con carne di agnello e verdure.
Per l’impanatura, però, dobbiamo aspettare ancora qualche anno. Federico II, alla sola età di 4 anni, divenne re del Regno di Sicilia (1197) dopo la morte del padre Enrico VI. Federico fu il sovrano più innovativo e intelligente che la terra siciliana abbia mai conosciuto. L’invenzione dell’ impanatura degli arancini viene spesso fatta risalire a lui.
L’impanatura croccante, infatti, avrebbe assicurato un’ottima conservazione del riso e del condimento, oltre ad una migliore trasportabilità. Infatti, si suppone che, inizialmente, l’arancino era considerato principalmente un cibo d’asporto, da consumarsi durante il lavoro in campagna o le battute di caccia.
Dopo la scoperta delle Americhe venne introdotto come ingrediente anche il pomodoro che, con il tempo, lo si utilizzò per preparare il ragù, usato oggi come ingrediente principale.
Storia e origini dell’,Arancino…
L’arancinu è quell’appetitoso “pezzo di rosticceria” a base di riso che oggi in Sicilia si trova in tutti gli esercizi che offrono ai clienti il servizio di “tavola calda”, ma è anche una pietanza che, sempre più, viene preparata in casa; si torna così, inconsapevolmente, a ripetere i gesti della preparazione di una antica ricetta culinaria.
Ma antica quanto?
Su questo argomento sono più le leggende che i dati storici.
Quindi il condizionale è d’obbligo perché in realtà le certezze storiche sull’origine di questo preparato a base di riso sono scarse e spesso, le poche che possiamo avere, sono ipotizzabili solo per esclusione. Poi a contribuire alla confusione ci si mette anche il campanilismo fra le maggiori città dell’Isola che ne rivendicano la paternità: Palermo, Catania, Messina e Siracusa.
Ovviamente l’arancinu “tradizionale” come lo conosciamo noi oggi, cioè con il ripieno di sugo, pezzetto di carne, formaggio dolce e piselli, non ha una storia molto antica; infatti i primi acquisti di pomodoro da parte della nobiltà siciliana sono datati 1852 e quindi solo a partire da questa data si può parlare di pomodoro nella cucina siciliana e del sugo di pomodoro che tanta popolarità darà poi al moderno arancinu.
Ma allora, in precedenza, esisteva qualcosa di simile al nostro delizioso arancinu?
Le origini di l’arancinu, andando indietro nel tempo e attraverso modifiche e aggiunte di antiche pietanze, ci fanno risalire probabilmente fino ai siciliani di cultura saracena.
Se ci riferiamo al solo ingrediente principale possiamo dire che probabilmente l’arrivo del riso in Sicilia e in altre regioni meridionali è da attribuire appunto ai Saraceni.
A partecipare alla conquista della Sicilia, a partire dall’827, oltre agli arabi originari della penisola arabica del Nordafrica, accorsero anche arabi di Siria, d’Egitto, d’Iran e della penisola iberica assieme ai Berberi che arabi non erano, ma musulmani sì.
Pare che il riso fosse sconosciuto agli antichi egizi e agli ebrei. Dal Medio Oriente la coltura del riso giunge in Egitto nel 1° secolo dopo Cristo. Anche i romani lo conoscevano a mala pena e i più informati della Roma antica consideravano il cereale decorticato buono soltanto per infusi coi quali combattere mal di pancia ed altre affezioni intestinali.
Fonti più attendibili e convincenti ci raccontano come, prima ancora dell’espansione islamica nel bacino del Mediterraneo, che iniziò intorno al 640 dopo Cristo, il riso fosse fra le merci che passavano attraverso i fondaci della “Porta del pepe” di Alessandria d’Egitto; ma non come alimento di base. Il riso era infatti considerato ancora come una spezia o un medicamento o un ingrediente per dolci, da acquistare comunque dallo speziale a prezzi non certamente accessibili al popolo.
Nei manoscritti del 550 dopo Cristo si dissertava ampiamente sugli alimenti e sui metodi di coltivazione arabi, siriani, copti, nubiani, etiopi, armeni e georgiani.
È probabile quindi che il riso approdò anche in Europa, portato dai saraceni intorno al 9° secolo dopo Cristo, attraverso la penisola iberica e la Sicilia. I saraceni portarono il riso, ma non ancora la risicoltura. A parte qualche tentativo di acclimatazione della pianta nella zona di Siracusa e nella piana di Lentini, non si va oltre. Ancora per alcuni secoli i mercanti lo importarono, senza che nessuno riuscisse a coltivarlo in modo significativo. L’etichetta affibbiata al riso di medicinale o, tutt’al più, quella d’ingrediente per dolci, continuò ad essere valida fino all’alto Medioevo.
Ricordando che gli arabi arrivarono in Sicilia nell’827 e che i normanni iniziarono la loro conquista dell’Isola già nel 1060, la multietnica popolazione siciliana (anche se l’Emirato di Sicilia era scomparso ormai da tempo) risentì fortemente, ancora per più di un secolo, della cultura saracena di cui era stata permeata soprattutto nel Val di Mazzara e nel Val di Noto, ed è quindi possibile che l’uso del riso, quale complemento di piatti di carne e verdure, fosse tradizionalmente previsto in ricette etniche anche se limitatamente ad alcune ricorrenze religiose.
L’agronomo arabo-ispano Ibn al-Awwam scrisse nel 1150 il Libro di Agricoltura, una monumentale opera in trentuno libri, dovedescrive con minuzia le fasi della coltura del riso.
Ma in realtà bisogna arrivare al 1300 per avere qualche traccia dell’uso del riso in quantità tali che lo fanno uscire dalle categorie speziali. Un “Libro dei conti della spesa” dei Duchi di Savoia, datato anno 1300, registra una uscita di 13 imperiali alla libbra per “riso per dolci” e di 8 imperiali per miele.
In Sicilia, oltre ai saraceni, la diffusione del riso si deve probabilmente anche ai mercanti della serenissima repubblica di Venezia che commerciavano con il Medio e l’Estremo Oriente importandolo come “spezia che arrivava dall’Asia, via Grecia”. Un altro documento del 1371 colloca il cereale fra le “spezierie” e merceologicamente lo definisce “Riso d’oltremare” e “Riso di Spagna”. È documentato che anche i monaci Benedettini coltivavano il riso nei loro orti medici, ma che avevano anche avviato la bonifica delle zone paludose per la coltivazione estensiva del riso.
Dopo il 1400 saranno le guerre, le epidemie e le carestie, dovute anche all’esaurimento dei vecchi alimenti destinati alle plebi come il farro, il miglio, il sorgo, la segale, l’orzo, il frumento turgido a fare scoprire che il riso poteva diventare un prodotto agricolo altamente produttivo e capace di sfamare intere popolazioni, come ben sapevano gli orientali.
Quindi il progenitore di l’arancinu è con molta probabilità un piatto della cucina araba, fatta con riso aromatizzato allo zafferano arricchito di verdure, odori e di pezzetti di carne. Quest’antica portata veniva servita al centro della tavola in un unico vassoio e, com’era consuetudine anche dei nostri contadini, ognuno per mangiarne allungava le mani. Poi si entra nella leggenda la quale racconta che gli arabi per rendere il riso da asporto ne fecero una palla simile ad una arancia, che impanata e fritta acquistò consistenza, tanto da resistere al trasporto. Non sappiamo se già contenesse il ripieno di sola carne e verdure perché sembra che l’idea del ripieno sia nata parecchio tempo dopo. Mentre, invece, la tradizione narra che l’invenzione della panatura viene spesso fatta risalire ai cuochi della corte di Federico II, quando si cercava un modo per recare con sé la pietanza durante i viaggi e le battute di caccia. La panatura croccante, infatti, assicurava un’ottima conservazione del riso e del condimento, oltre ad una migliore trasportabilità.
Anche se oggi è raro trovare chi aromatizza il riso con il costosissimo zafferano, la colorazione paglierina del riso è molto diffusa (in sostituzione viene usata l’economica curcuma), ma nel Messinese e in provincia di Catania (meno in città) si usa il sugo del pomodoro per colorare il riso. In questo modo l’arancinu assume una colorazione e un sapore leggermente diverso.
Per quanto riguarda le dimensioni, non esiste una misura standard. Nella Sicilia Occidentale gli si dà la forma a palla delle dimensioni di un’arancia; mentre nella parte orientale gli si dà una forma appuntita.
Si chiama arancina o arancino?
Non si dovrebbe chiamare né arancina né arancino, ma arancinu (come giustamente è riportato sul Traina, un dizionario siciliano edito a Palermo nel 1860). Il suo nome deriva sì dall’arancia, ma in siciliano non si fa, e non si faceva, differenza fra aranciu albero e aranciu frutto. Quindi una “piccola arancia” in siciliano si dice arancinu o araciteddu. L’italianizzazione di termini del linguaggio dialettale danno origine a storture che deformano la tradizione, come ad esempio u cannolu che italianizzato diventa “il cannolo”, u sfinciuni che diventa “lo sfincione”: brutto, no? Se poi ne vogliamo fare una questione di rivalità campanilistica è un’altra storia.
Grazie a Giovanni Majolino
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