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Storia di Vitti ‘na crozza….♥️♥️

La canzone “Vitti na crozza” è ritenuta la canzone siciliana più conosciuta fuori dalla Sicilia e spesso viene identificata con la Sicilia, anzi viene portata a vessillo canoro della Sicilia.
Tutto inizia nel 1950, il regista Pietro Germi venne in Sicilia per iniziare le riprese del film “Il cammino della speranza”.
Ad Agrigento Germi incontrò il Maestro Franco Li Causi al quale chiese di comporre “ un motivo allegro-tragico-sentimentale “ da inserire nel film. Il maestro fece ascoltare alcune sue composizioni ed altre di natura popolare che non soddisfarono il regista.
Durante alcune riprese del film effettuate a Favara in un momento di pausa un minatore, Giuseppe Cibardo Bisaccia, recitò a Germi una poesia popolare, i cui versi sono: “Vitti ‘na crozza supra nu cannuni / fui curiusu e ci vosi spiari / idda m’arrispunniu cu gran duluri / muriri senza toccu di campani.”
Al regista Germi, i versi piacquero a tal punto da chiedere a Li Causi di musicarli.
Il maestro riascoltò la poesia dal minatore prendendo appunti anche di una traccia musicale per come l’aveva decantata il minatore e rielaborando il tutto anche per la sua grande esperienza musicale scrisse la partitura di “Vitti na crozza”.
La canzone forma la colonna musicale dei titoli iniziali del film.
Il film ebbe un buon successo e la canzone cantata nel film venne ascoltata da moltissime persone in tutta Italia e divenne molto conosciuta tanto che il maestro Li Causi registrò un vinile a 78 giri con la voce del tenore Michelangelo Verso.
Il maestro Li Causi, come fanno molti musicisti, registrò alla SIAE (Società Italiana Autori ed Editori) in data 16/03/1950 la canzone “Vitti na crozza” sotto il suo nome Francesco Li Causi, via Arco di San Francesco di Paola, 23 Agrigento.
Il regista Germi, che commissionò a Carlo Rustichelli, famoso autore di colonne sonore di film le restanti musiche, non cita nei titoli di inizio e di coda la paternità della musica “Vitti na crozza” per cui da qualcuno erroneamente la canzone viene attribuita a Carlo Rustichelli.
In realtà altri iscrissero questa canzone alla SIAE, ma il giudice di Catania, dopo dieci anni dalla causa intentata da Li Causi, decretò che il padre di “Vitti na crozza” fosse Francesco Li Causi, che nel frattempo era deceduto.
E’ verosimile, che la parte testuale della canzone appartenga a vecchie canzoni popolari e quindi di autore sconosciuto, (anche se non si trova traccia nei libri di raccolte di canzoni siciliane), e pertanto non si può effettuare una datazione certa, mentre la partitura è molto probabile sia del maestro Li Causi, non potendo però escludersi che il musicista a partire dalla canzone ascoltata dai minatori e quindi con linea armonica preesistente abbia messo in partitura la canzone mettendogli anche qualcosa di suo sia nel movimento armonico che nell’arrangiamento, convincendosi che per il lavoro effettuato di assembramento, arrangiamento e armonizzazione, era suo diritto iscrivere la canzone alla SIAE a suo nome.
Chi ascolta la celebre canzone siciliana Vitti ’na crozza crede che l’allegro motivo sia una sorta di inno alla vita, ma basta prestare attenzione alle sue parole per rendersi conto che si tratta di altro .
Protagonista della canzone è ’na crozza, ossia un teschio. Un teschio che, attraverso il suo racconto ad un anziano minatore , si fa promotore di una forte denuncia sociale, rivolta principalmente contro determinate usanze della Chiesa cattolica di un tempo.
La maggior parte delle persone ha sempre ritenuto che il famoso ‘cannuni’ dove si trova il teschio, protagonista della canzone, fosse il pezzo di artiglieria cilindrico utilizzato per fini bellici, e che la canzone si riferisca ad un tragico evento di guerra.
Ma così non è!
Con molta probabilità sta ad indicare il teschio impalato in un legno e conficcato sulle mura di un castello, ancora oggi per cannuni in alcuni paesi si fa riferimento al castello, spesso posto nell’altura del paese per motivi di difesa ed anche per poter essere ben visto in tutto il paese, altra interpretazione del “cannuni” è data da qualche minatore che lo indica come l’architrave o l’entrata della miniera che essendo un cunicolo è chiamata canna e cannuni l’entrata.
C’è da ricordare l’usanza in tempi passati di esporre la testa mozzata di banditi o briganti (che con le intemperie diventava teschio) per diversi anni e questo per monito a tutti i paesani e che questa usanza ben si adatta al fatto che un teschio possa trovarsi sulla torre di un castello.
La canzone ripercorre l’ostracismo perpetrato dalla Chiesa, incredibilmente cessato solo verso il 1940, nei confronti dei minatori morti nelle solfatare. I loro resti mortali non solo spesso rimanevano sepolti per sempre nella oscurità perenne delle miniere, ma per loro erano precluse onoranze funebri e perfino, insiste il teschio della canzone, un semplice rintocco di campana!
La pietas verso i defunti non è assente nella classicità ed oltre ad essere invocata è non raramente riservata perfino ai nemici: in effetti segnala un passaggio cruciale nell’affermazione di una condizione che siamo soliti definire civiltà.
La voce del teschio , implora che qualcuno riservi anche a lui questa pietas, affinché una degna sepoltura, accompagnata da un’onoranza funebre che lo possa degnamente accompagnare nell’aldilà sia in grado di riscattare i suoi peccati e garantirgli una pace eterna dopo un’esistenza di stenti, contrassegnata da un lavoro massacrante in un’oscurità permanente.
E’ l’occasione pure per l’anziano di guardare indietro negli anni e fare un consuntivo della sua vita accorgendosi a malincuore che son passati i suoi anni e se ne sono andati via come in un attimo, senza sapere dove, ma anche da anziani si è attaccati alla vita, anzi di più sapendo che è fisiologica la dipartita, e si invoca la vita, ancora una lunga vita, ma le risponde la morte con il suo richiamo da un teschio.
L’anziano prega i parenti di preparargli il letto (in Sicilia come in tante altri parti si fa la veglia al defunto coricato su un letto che prende il posto centrale della stanza attorniato dai parenti) perché già si sente divorato dai vermi, con lo scopo già di cominciare a scontare su questa terra i peccati fatti per evitare di scontarli piangendo nell’aldilà. Ciò che dice l’anziano, per la verità, potrebbe essere anche detto dal teschio.
La canzone è veramente triste, ma da uno spaccato filosofico della vita, l’accettazione di averla vissuta e di trovarsi davanti al mistero della morte.
L’argomento trattato non è per niente allegro e mal si adatta, solo forzandolo, con quel gioioso trallalleru inserito nelle versioni più recenti di stampo folkloristico e commerciale così pure mal si adattano le altre strofe aggiunte in seguito in cui si privilegiano le bellezze della Sicilia, il suo splendido mare e il focoso Mungibeddu (Etna).
A proposito del trallalleru, introdotto nelle versioni più recenti, non è presente in quella di Michelangelo Verso, la stessa Rosa Balistreri, la punta di diamante del canto siciliano, cantò raramente la canzone ma mai volle aggiungere il ritornello del trallalleru, ribadendo come il tema triste della canzone mal si adattava con questo farsesco trallalleru. , la considerava una puttana che andava spoglia dei suoi significati, vestita solo di un trallallero vergognoso.
”Vitti na crozza” rimane comunque una canzone che rispecchia l’animo siciliano, che guarda al passato, alla sua storia, alle tradizioni, all’animo spesso malinconico dei siciliani sfruttati, privati della libertà e oppressi e dominati da vari popoli ma sempre pronti a prendere il meglio dei dominatori, anzi a unire la propria cultura con quella dei dominatori arricchendo così la cultura siciliana e proiettandola così alla modernità e al futuro.

Giovanni Majolino


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