Condividi su

Scilla e Cariddi: la leggenda dei mostri che terrorizzano lo Stretto di Messina
Le leggende sono racconti fantastici e insieme alle tradizioni sono tramandate durante il corso del tempo come l’accattivante leggenda di Scilla e Cariddi che da sempre caratterizza la zona dello Stretto di Messina. Una storia che ci ha raccontato Omero nella sua Odissea, Virgilio nell’Eneide non ne fa perdere le tracce e la troviamo anche nella Divina Commedia di Dante. Si narra che Scilla, figlia di Tifone ed Echidna, fosse una giovane ninfa con occhi azzurri di rara bellezza che viveva nella zona di Reggio Calabria, ed era sua abitudine andare sulla spiaggia di Zancle (l’antica Messina) a farsi il bagno nelle acque cristalline del mare.
Un giorno, mentre Scilla si trovava sulla spiaggia di Zancle, vide una figura avvolta in un’onda diretta verso di lei. La ragazza si spaventò terribilmente, ma un pò alla volta schiarì la figura proveniente dal mare e vide davanti a sé un dio marino. Dalla vita in su era un essere umano con la pelle blu con capelli lunghissimi strascicanti sul mare, barba folta di un verde scuro, ma al posto delle gambe aveva una coda di pesce. Si chiamava Glauco e spiegò alla ninfa spaurita che prima era un mortale, un pescatore della Beozia. Disse che un giorno, dopo aver pescato, distese le reti sull’erba ad asciugare dove posò anche i pesci quando vide che a contatto con l’erba i pesci presero vita e saltellando arrivarono di nuovo in mare. Glauco, incredulo e incuriosito, decise di ingoiare qualche filo d’erba per vedere l’effetto che avrebbe avuto. Dopo averla mangiata, avvertì uno strano cambiamento sentendosi attratto dall’acqua in modo irresistibile. Si tuffò in mare dove venne accolto dagli dei marini che pregarono Oceano e Teti di tramutarlo completamente in un dio del mare. Le loro preghiere furono ascoltate, e così Glauco diventò colui che si presentò davanti a Scilla.


Dopo aver raccontato la sua storia, Glauco dichiarò il suo amore alla bellissima giovane che, ancora in preda alla paura e incurante dei sentimenti di Glauco, fuggì e si nascose sulla cima di un monte nelle vicinanze. Glauco rimase solo con la sua delusione e decise di andare dalla maga Circe per chiederle di preparare una pozione per far innamorare Scilla. Circe per prima cosa lo rimproverò di amare e desiderare l’amore di una donna mortale, ed essendone invaghita gli suggerì di lasciar perdere Scilla per unirsi a lei. Ma il dio marino rifiutò perché non era disposto a mettere da parte il suo amore per Scilla. Quando Glauco se ne andò, la maga, infuriata e umiliata perché respinta, preparò sì una pozione che versò in mare dove Scilla era solita farsi il bagno, ma il risultato fu completamente diverso da quello richiesto da Glauco. Quando Scilla tornò a Zancle e si fece il bagno in mare ad un tratto la ninfa vide sbucare intorno a sé delle spaventose teste di cane che ringhiavano con rabbia. Scilla cercò di difendersi dai mostri che la circondavano ma quando uscì dall’acqua vide che dalla vita in su era ancora donna, ma con orrore si accorse che le teste dei cani facevano parte del suo corpo. Sei teste di cani latranti con tre file di denti appuntiti erano attaccati a lei con lunghi colli serpentini al posto delle gambe. Terrorizzata da se stessa, la Scilla mostro si buttò in mare e si stabilì nella grotta di uno scoglio dove trovò Cariddi, un altro spaventoso mostro marino. Cariddi, figlia di Nettuno e di Gea (Madre Terra), era continuamente affamata e un giorno osò fare un affronto ad Ercole rubandogli dei buoi per mangiarseli. Ercole raccontò l’accaduto a Zeus per farla punire e così questi colpì Cariddi con un fulmine trasformandola in un mostro che rimase nello Stretto di Messina, condannato a ingoiare e risputare acqua tre volte al giorno formando violenti vortici, causa di orrendi naufraghi. Glauco fu preso dal dispiacere e pianse a lungo per la sorte crudele che ebbe Scilla, trasformata in un mostro marino per ritrovarsi al fianco di un altro mostro spaventoso. Cariddi divenne l’artefice di spaventosi vortici che facevano naufragare le navi e Scilla divorava i naviganti con le sue sei teste di cani feroci.
Della leggenda di Scilla e Cariddi esiste un’altra versione che si ispira alla piccola cittadina di Scilla, la punta dello stivale di fronte lo Stretto di Messina. Il piccolo paese visto dall’alto ha le sembianze di un’aquila con le ali spiegate, e il racconto spiega il motivo della sua forma. Si narra che un giorno un gruppo di aquilotti in volo bloccò la visuale di Giove, che era intento ad osservare una ninfa per cui nutriva una certa simpatia. Giove, il quale non accettò l’affronto, scagliò contro lo stormo di aquilotti i suoi fulmini, che prima li trasformarono in cagne e poi vennero gettati in mare. La mamma dei piccoli tornò al suo nido ma lo trovò vuoto, e in preda alla disperazione chiese alla divinità di farla morire o di permettergli andare alla ricerca dei suoi piccoli. Giove fu mosso a commozione nel vedere il dolore della mamma aquila e le permise di lasciare l’Olimpo per andare alla ricerca dei suoi aquilotti. Quando l’aquila vide i suoi piccoli sul fondo del mare capì che era stata opera di Giove, e cominciò a disprezzarlo. Il capo degli dei non tollerò questo atteggiamento da parte dell’aquila e colpì anche lei con i suoi fulmini, che le ruppero un’ala e le squartarono il ventre. Mamma aquila cadde in mezzo ai suoi piccoli, e quando la sua testa toccò terra diventò pietra, (la rocca su cui oggi si trova il castello Ruffo di Scilla) e gli aquilotti divennero degli scogli. La leggenda racconta che, ancor oggi, si sentono i latrati delle cagne e l’urlo della madre disperata che generano un suono orrendo come avvertimento nel non azzardarsi a offendere il potente Giove.
(Astrid Facciola)
(Scilla e Cariddi in un dipinto di Johann Heinrich Füssli)

Foto di copertina ketty Vasi


Condividi su

Categories:

Tags:

No responses yet

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *